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Sala 3 - Pan e i suoi figli


Per millenni la cultura pastorale ha abitato l’aspro territorio
peloritano, condividendo l’habitat naturale, votato al pascolo,
con l’allevamento primario di ovicaprini, e in misura ridotta di
bovini. E così i pastori, nell’accezione soprattutto di caprai, sono stati i primi colonizzatori di un area siciliana, quella peloritana, dalle tante risorse naturali, configurandosi, diremmo oggi, come un regno della biodiversità. Più o meno, dal paleolitico, dunque ancor prima della radicale rivoluzione agricola, che muterà per sempre la storia del Mediterraneo, innescando la spirale avvolgente degli scambi commerciali, alla ricerca ininterrotta delle materie prime, ma anche di segni e simboli, di dei e culti originari, legati agli spiriti invisibili eppure immaginati e rappresentati, a plasmare il loro stare al mondo.

I nostri pastori, non solo peloritani, ma anche quelli dei Nebrodi, delle Madonie, degli Iblei, sono gli eredi diretti di quelli raccontati in versi e storie mirabili, avvolte nel mito e nella leggenda, da Teocrito, poeta alessandrino del III Secolo a.C., nativo di Siracusa, padre della poesia pastorale e del mito dell’Arcadia, fra Grecia e Sicilia. Da loro è nata la poesia e la musica, formalizzando così un pensiero simbolico e astratto, mai formulato prima, che unisce terra e cielo, risorse naturali e immaginario collettivo.

Homo Faber, per eccellenza, con un’incredibile attitudine alle competenze multiple, da quelle materiali a quelle immateriali, i pastori peloritani hanno mantenuto miracolosamente intatto questo legame con le origini, da padre in figlio, fino ai giorni, assumendo sempre una distanza di sicurezza, con la micidiale freccia dello sviluppo che gli ha passato per secoli a fianco.

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Fiero ed orgoglioso delle sue origini nobili e poetiche, u craparu ha condiviso la sua vita con le ribelli capre e le ostinate pecore. Animali da lui amate e curate, perché fonte primaria del suo benessere, non certo della sua sopravvivenza. In più ha elaborato nel tempo strategie di controllo e rispetto del territorio, senza abusarne. Si pensi ad esempio ai suoi ovili, mandri o mannari, luogo di vita e di lavoro, condivisi con gli animali. Si tratta di architetture elementari, biodegradabili, con muri a secco e pagghiari. Homo Faber per eccellenza, dicevamo prima il pastore, perché in grado come testimoniato nella Sala di Pan, di modellare il gelso nero, per ricavare i collari, personalizzati con figure geometriche, astratte, incise a punta di coltello con la tecnica della cosiddetta stilliatura; o i cucchiai anche in forma antropizzata in erica, quest’ultima essenza vegetale endemica sui versanti ripidi dei Peloritani.


Ma ciò che più caratterizza i pastori peloritani, configurandoli come espressione dell’arcaica e mitica discendenza, è la costruzione e la prassi esecutiva in solitaria o in comunità di un’ampia famiglia di flauti e clarinetti, fino  ad arrivare alla zampogna a oaro,  espressione massima del sapere etnorganologico peloritano. Un patrimonio cosiddetto immateriale che prende forma in una pluralità di varianti, che fanno dei Peloritani e dei vicini Nebrodi un’area elettiva di conoscenza e uso del sapere costruttivi e performativo che, nonostante il disfare di i dei contesti d’uso originari, e oggi miracolosamente vststo trasmesso alle nuove generazioni, anche fuori dagli ovili. E il suono pastorale di oggi si ricollega direttamente al padre tutelare dei caprai e pecorai peloritani, ovvero al collerico Pan, metà uomo e metà capra, un semidio che ha accesso  ad pantheon degli dei maggiori,  sempre in cerca ossessiva di prede femminili per soddisfare la sua incontrollabile libido, mitigata dal conforto del suono riconciliante delle canne della sua siringa, aerofono, da cui inizia l’affascinante storia degli strumenti a fiato.

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Gli strumenti a fiato hanno difatti unito le culture pastorali di tutto il Mediterraneo, ma anche quelle dell’Europa continentale. Una vista d’insieme degli aerofoni a sacco di origine pastorale, provenienti dall’oriente, attesta una distribuita diffusa e radicata. Alle nomadi arcaiche cornamuse, si aggiungono poi le zampogne dell’Italia centro meridionale, con l ed incredibili varianti organologiche regionali, dalle cosiddette zoppe, a quelle a chiavi, fino a quelle a paro’ dell’Aspromonte e peloritane, un vero e proprio unicum etnorganologico, complesso, che si stabilizza nel Cinquecento, secolo organologico rivoluzionario, che ha certamente influenzato l’affermazione e la stabilizzazione delle zampogne italiane. La Sala di Pan, con una ricca collezione, e un rilevante apparato iconografico e didascalico, racconto tutto questo e tanto altro.


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